Diario di una Tempesta
di Annarita Risola
Solo venti spettatori per assistere ad uno spettacolo estremo, di cui scorgiamo qualche immagine sulla rassegna stampa all’ingresso del Convitto Palmieri. La curiosità aumenta. Entriamo ordinatamente, poche persone per volta. Il grande portone verde si chiude alle nostre spalle. Alte quinte nere lasciano lo spazio al buio. 20 sedie, un rito. Un uomo misterioso, con voce profonda, ci raccomanda di lasciare oggetti, borse e giacche sulla sedia per avere la mani libere. Capiremo successivamente l’importanza di questo comando. Dopo aver spento le tre candele accese poste sul pavimento, ci conduce nel grande cortile interno, dove ci attendono otto attori, tre uomini e cinque donne, seduti a terra ai bordi dell’imponente colonnato. Ognuno è illuminato dalla flebile luce di una candela. Lentamente gli occhi si abituano alla penombra. Sono vestiti allo stesso modo, camicia bianca, pantalone o gonna neri. 'Vieni più vicino', ci sussurrano a bassissima voce. 'Più vicino'. Ci invitano a sedere intorno, pochi spettatori per ogni attore. Scrivono di noi, di quello che rispondiamo alle loro domande. Non è facile abbandonarsi. Così inizia il racconto, che si concluderà con quella che sarà la chiave di lettura per tutto ciò che seguirà: la paura, la fragilità, le chiavi. Le nostre porte sono aperte o chiuse? Nulla è come appare. Ora ci alziamo e diventiamo parte del tutto. La storia è intorno a noi, ci ingoia. Le parole suggestive, quelle de La tempesta di Shakespeare, i fantasmi di Otello e Desdemona, Amleto, Macbeth e i riferimenti che li rievocano, la morte, l’amore, il mare, il padre, l’innocenza, la gelosia. L'essenza umana, quella parte più profonda di noi che è immutabile ed eterna, alla quale è stato dato il nome di anima. Le nostre mani toccano, stringono, accarezzano la terra profumata che protegge la vita e custodisce la morte. E noi, ormai, non più spettatori, siamo ostaggi nelle mani degli attori, che usano le parole come fruste. A volte, delicatamente, accarezzano le nostre emozioni, altre le percuotono, quasi a voler risvegliare i nostri sensi sopiti. C’è confusione, chiasso. È il mare in tempesta, è il mondo intero, un'illusione! Come forse, il teatro. Ma non tutti sono lemmi, parole già scritte. Non tutti hanno tratti precisi. Non tutti seguono, senza riflettere, le opinioni comuni. Massimo Munaro è un provocatore e per lui è inutile un teatro che non lo sia. E così è stato, uno spettacolo provocatorio, ricco di suoni e parole. Mi piace concludere con quelle scritte su uno dei tanti fogli sparsi a terra, prese in prestito a Macbeth: La vita non è che un'ombra che cammina, un attore che si agita sulla scena e di cui, dopo un’ora, non si parla più.
postato da Koreja il gio 21 novembre 2024 alle 10:53 - Commenti(0)
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