ven 20 luglio 2018 - ore 11:02

Una tempesta e la funzione del teatro



di Ida Barbalinardo

WS Tempest del Teatro del Lemming porta a termine un ciclo di spettacoli shakespeariani intitolato "Trilogia dell'acqua" iniziato con "Amleto" e proseguito con "Giulietta e Romeo - lettere dal mondo liquido". È uno spettacolo che parla di noi tutti e del nostro essere umani. Non lo fa, però, portando in scena un semplice rifacimento della Tempesta di Shakespeare, come ci si aspetterebbe, ma riprendendo, da questa e da altre opere del celeberrimo drammaturgo, suggestioni e personaggi colti nella loro specifica individualità e interiorità "Perché ciascuno di noi è fragile come Ofelia, geloso come Otello, integro come Cordelia, pieno di dubbi come Amleto". Si parla di umanità, di fragilità, di dolore, di paura, di passione, di amore, ma anche del male che vive in ognuno di noi, del perché esiste e del perché "un uomo, uno come te, che ragiona, pensa e sente, arriva a fare quello che fa". Il punto di partenza è costituito da una rilettura de “La Tempesta" come simbolo di un naufragio che avviene, in primis, nella mente del protagonista. Un naufragio che ha come immediata conseguenza il delirio, attraverso il quale vengono rievocati alcuni trai più importanti personaggi shakespeariani: Amleto, Giulietta, Macbeth, Re Lear, Riccardo, Bruto. Tutti frammenti, piccole parti di un'identità composita. L'effetto che produce nell'immediato questo delirio, è una sorta di rasserenamento. Ci si sente compresi, consolati, meno soli, perché "anch'io, come te, sono pieno di dubbi". Si percepiscono le proprie inquietudini, i propri dolori e le proprie paure come caratteristiche imprescindibili dell'essere uomini, dell'essere qui, dell'essere vivi, come parti di un tutto che è la vita e, per un attimo, si riesce ad accettarle di buon grado, a non scontrarsi con esse. Nonostante tutto, questa sensazione non dura poi così tanto. Ciò che più salta all'occhio nell'assistere a questa performance del Teatro del Lemming è il suo continuo oscillare tra toni sommessi, parole sussurate, atmosfere sognanti, dolci sorrisi e urla strazianti, parole urlate o pronunciate a bocca quasi serrata, riferimenti a episodi dolorosi, come la morte di un padre. Questo alternarsi di due differenti registri si traduce anche col movimento dei corpi in scena: si passa dallo stare seduti a un moto vorticoso che letteralmente trascina lo spettatore, lo "costringe" a mantenere sempre viva l'attenzione, a voltarsi continuamente per non perdere una sola parola o un solo gesto. La separazione tra scena e pubblico è annullata. Non solo gli attori, ma lo stesso pubblico è ormai partecipe del naufragio. La sensazione di serenità e comunità col mondo si trasforma ben presto in qualcosa di nettamente differente. L'animo è pervaso da un senso d'inquietudine per la precarietà che investe le cose del mondo e la vita stessa. Tutto muore, si trasforma. "Non c'è altro che movimento, non c'è altro che spostamento, non c'è un luogo che sia una casa a cui tornare". Un uomo bendato, trascinato e sbattuto da una parte all'altra, come fosse senza meta, riesce a trovare conforto solo in un abbraccio, proprio perché "o l'uomo si salva con l'uomo o nulla!" Nel ventre di queste sensazioni ed emozioni antitetiche trova posto anche l'articolazione di un discorso incentrato sulla funzione del teatro. Si rivendica la volontà di un teatro che non miri semplicemente a intrattenere o a divertire, ma che permetta allo spettatore di guardarsi dentro, di scoprire nuovi mondi e di osservare il reale con nuovi occhi. Questa visione civilizzatrice dell'atto performativo viene resa sulla scena tramite una figura dalle idee totalmente opposte, a tratti fastidiosa, quella dell'arpia del teatro che, posta su un carrello, con megafono alla mano e con fare da dittatrice, si scaglia contro la compagnia di attori accusandoli di aver ingannato il pubblico, non avendo messo in scena "La tempesta" di Shakespeare. Un personaggio legato al teatro che diverte, al teatro che distrae, al teatro che distoglie dal pensiero. Nel contempo, il sentimento di precarietà continua ad aleggiare nell'aria fino all’estremo, fino al momento finale in cui, pian piano, tutto perde il suo senso, le parole stesse e i nomi, che non servono più a nulla. Tutto si scioglie nell'acqua, tutto scompare, perfino attori e spettatori. Perché "siamo a teatro, è tutto finto. Siamo a teatro, è tutto vero".


postato da Koreja il gio 21 novembre 2024 alle 10:55 - Commenti(0)


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