mer 30 ottobre 2019 - ore 10:47

“Finché posso immaginare sono libera”



Intervista a Elena Bucci*

- Elena Bucci, attrice, drammaturga, regista e cantautrice: chi preferisce essere?
Tutte queste nature sono sempre state intrecciate insieme, fin dall’inizio, anche se spesso il ruolo di attrice, forse perché più visibile, sembra quello che prevale sugli altri. A questo si aggiunge il fatto che solo da pochi anni si moltiplicano le regie e le scritture femminili, prima poco viste e valorizzate. Per mia fortuna ho avuto la possibilità, fin dai primi debutti con Leo, e ancora prima in alcuni lavori da sola, di combinare le mie scelte con i preziosi insegnamenti di chi mi ha diretto e di chi ho avuto accanto. Questa pratica di libertà e rigore, di apprendimento e scelta, di curiosità e di riflessione mi ha permesso di imparare da tutto e da tutti e allo stesso tempo di percorrere la mia strada di creazione originale.

- Nel 1993 ha fondato con Marco Sgrosso la compagnia Le belle bandiere, in un’intervista (Elena Bucci e Marco Sgrosso: il coraggio di essere una compagnia, su teatro.it del 21/10/2018) Marco ha dichiarato che essere compagnia significa esprimere il senso stesso del teatro: lei cosa ne pensa?
Il senso del teatro per me cambia di giorno in giorno e ancora ne inseguo il profumo. Forse, se mai lo trovassi, non avrei più necessità di provare, debuttare, scrivere. Sto giocando, con questa mia risposta, alludendo alle benedette differenze tra Marco e me, proprio quelle che ci permettono di condividere il lavoro da tanti anni mantenendo la freschezza dell’ispirazione: siamo molto diversi, dialettici e complementari, sempre complici. Certamente anche per me la parola ‘compagnia’ evoca soltanto pensieri fertili ed entusiasmanti. Una delle bellezze dell’arte del teatro è la sua capacità di connettere persone e talenti diversissimi, tutti uniti in un unico progetto che vola verso la ricerca di della qualità dei dettagli, dell’autenticità del proprio fare, della condivisione con un pubblico sempre più ampio e variegato. Cerchiamo tutti quell’attimo sospeso, quel momento magico nel quale, pur tutti diversi, possiamo respirare insieme, qui ed ora, sull’orlo della vita. La compagnia, con la sua pratica quotidiana di conoscenza reciproca e ascolto, può aiutare molto su questa strada ed è per me talmente congeniale che ho spesso rifiutato occasioni di carriera che mi portavano lontano da questa pratica allo stesso tempo concreta e utopica. La compagnia per come la intendo io aiuta ad essere fratelli, anche a distanza di anni e di chilometri e questo è per me un dono insostituibile, specialmente in questi tempi di tradimenti e solitudini.

- Lei dice che la libertà è un sogno, anche se l’andiamo cercando (videointervista realizzata per il festival Kilovatt, il 23/07/2019 - https://www.youtube.com/watch?v=9ZRZr9uSnwM) e dunque le chiedo: lei come artista di teatro si sente libera? E come donna? La libertà è sempre altrove, se non per qualche breve respiro di ebbrezza che ce ne fa misurare l’abisso. E’ ballerina, per natura fuggevole, per fortuna mutevole. Per me è sempre affascinante e degna di essere corteggiata, perché mi insegna un rispetto della vita e degli altri che a volte il narcisismo legato alla mia professione può annebbiare. Allo stesso tempo il sogno di un’estrema libertà può diventare una prigione, quando significa non riuscire a rinunciare a nulla di quello che si desidera. Il tempo e le esperienze mi stanno insegnando a coniugare libertà e rinuncia, desiderio di fuga e necessità di resistenza, difese e doni. E’ una lezione continua ed entusiasmante, anche nelle cadute.

- Lei utilizza codici artistici quali musica, canto, movimento, nel tentativo di raccontare la vita. Attraverso la scrittura del teatro cosa vuole raccontare?
Ogni esperienza artistica mi insegna di volta in volta cosa volevo, voglio, vorrò raccontare. Spesso me ne accorgo proprio al debutto con il pubblico e ne sono stupita e intimidita. Penso di non essere molto originale nella mia ricerca: cerco di comprendere, raccontando, dando sostanza ai sogni e alle ossessioni, usando tutte le arti che mi incantano e che cerco di conoscere e praticare, il mistero del nostro passaggio in questo mondo.

- Nel raccontare La canzone di Giasone e Medea (intervista del 12/04/2016 per il Centro Teatrale Bresciano) dice che sulla scena fa il tentativo di togliere il più possibile, per vedere cosa resta. Cosa resta?
Quando si è fortunati resta quel respiro unico, quella sospensione insieme, quella sensazione di pienezza, quella consapevolezza senza giudizio che ci rende vicini, con la sensazione di essere dentro la vita con un’intensità vertiginosa, quando non si è fortunati, non resta niente. Purtroppo il niente in teatro fa molto male. Ma anche questa dolorosa esperienza serve a togliere ornamenti inutili, frivolezze, orpelli. Serve a riconoscerli anche dove si travestono da altro.

- Leo de Berardinis, suo maestro, stando al racconto di Marco Manchisi, sottoponeva la sua compagnia ad un rigore e a tante regole da seguire, perché diceva che prima di diventare solisti bisognava imparare a suonare in gruppo. Cosa ne pensa? Segue delle regole per la sua compagnia?
Credo che Leo avesse proprio ragione. L’arte della coralità nutre e corregge il solista e il solista infonde energia e coraggio al coro. Ho sempre sentito come insostituibili entrambi i ruoli, maestri uno dell’altro e credo che passare dall’uno all’altro sia sempre molto salutare, anche dopo molti anni di professione. Per quanto mi riguarda, credo che nella compagnia ci siano senz’altro delle regole, anche se non scritte e molto semplici e ovvie: chiediamo a noi stessi e agli altri attenzione, ascolto, rispetto del tempo e del lavoro altrui, curiosità, slancio, disciplina, amore del rischio, dedizione, generosità. Le modalità però cambiano sempre, proprio per sorprendere le nostre pigrizie, i conformismi, le rigidità, le paure che generano, spesso inconsapevolmente, chiusura e blocco energetico. Ecco, credo che le regole spesso siano dettate da dove di volta in volta vanno a situarsi i motori di energia e i blocchi di energia. Sono due forze in dialogo che generano il ritmo e il respiro di molta parte della creazione. E poi sarebbe curioso fare rispondere a questa domanda gli attori e gli artisti che hanno lavorato con me, con noi. Chissà se hanno sentito questo o se hanno letto altre regole. Anche questa è una bellissima cosa: si può creare in armonia anche seguendo regole diverse.

- Può parlarmi del suo rapporto con i classici?
Quando i classici sono veramente tali, e quindi vitali, profondi, autentici, generati dal talento e dalla capacità di farne arte, sono un’avventura entusiasmante che rivela molto dei mondi passati, della storia, di quanto si ripete e di quanto cambia. Sono un regalo di chi non c’è più che infonde fiducia sul valore dell’arte che continua a vivere attraverso spazio e tempo. Molto prezioso.

- Definirei l’estetica e il linguaggio i suoi due punti di forza. Molto interessante è anche il grande lavoro sulla voce. Esiste un suo metodo?
Ogni volta che avrei voluto credere in un metodo e affidarmi ad esso sono stata presa in giro dalla realtà. È sempre accaduto qualcosa che ha provocato il crollo di molte delle mie certezze. Per questo ora provo ad avere solo un metodo non metodo: stare il più vicino possibile a quello che mi appare come vero, come autentico, come naturale, anche quando questo processo chiede molta fatica e molto coraggio.

- Perché Ovidio ancora oggi è così attuale?
Perché è un grande poeta. Il suo talento, affinato dalla cura, dalla ricerca, dalla disciplina artistica, ci hanno regalato quel tesoro indefinibile che nominiamo poesia e nel quale spesso ritroviamo forza e vita.

- Oggi la donna Elena è soddisfatta del suo percorso di vita artistica?
Sono abituata ad essere inquieta e a volte la nuova serenità che si affaccia mi stupisce. Non so se questo possa definirsi come una forma di soddisfazione. Forse sarebbe più corretto dire che, a tratti, la nebbia generata dai desideri, delle paure, dalla necessità di avere conferme si dirada e intravedo qualcosa che mi chiama e che, nonostante le difficoltà, apre un diverso orizzonte.

Annarita Risola – Progetto "Giovani sguardi", Teatro Koreja
*L’intervista è stata rilasciata nell'ambito del progetto "Giovani sguardi", Teatro Koreja in occasione della conversazione con la regista tenutasi il 23 ottobre presso il Teatro Koreja all’interno della programmazione di Palchetti Laterali (progetto per l’audience development dell’Università del Salento), durante le prove di Heroides. Lettere di eroine del mito dall’antichità al presente, spettacolo diretto da Elena Bucci e prodotto da Teatro Koreja che ha debuttato il 25 ottobre.


postato da Koreja il sab 23 novembre 2024 alle 10:30 - Commenti(0)


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