RENZO E LUCIA OLTRE I BANCHI DI SCUOLA
Intervista a Michele Sinisi
di Ida Barbalinardo
Foto Alice Stella
Michele Sinisi non teme le sfide: l'idea di lavorare su un grande classico della letteratura come "I promessi sposi" non lo spaventa. Al contrario, la portata di questo romanzo denso di diramazioni tematiche e personaggi affascinanti, lo accende e gli fa intravedere una miriade di mondi possibili.
Se gli anni di scuola ci hanno insegnato a "subìre" la storia di questo amore contrastato, memorizzandone meccanicamente le parti principali senza particolare coinvolgimento, Sinisi va verso la direzione opposta. Lo spettacolo di Elsinor, infatti, non è semplice riproposizione della trama del capolavoro manzoniano, ma un lavoro articolato in due atti all'interno dei quali il racconto degli episodi cruciali è affiancato alla riflessione sulle questioni che questi sollevano. La narrazione, portata avanti attraverso le stesse parole del Manzoni, è dunque animata tramite vari espedienti atti a solleticare la mente dello spettatore invitandolo a non limitarsi alla superficie, al conosciuto, ma a spingersi verso la profondità della materia trattata.
Curiosità sfrenata, riflessione, stimolo all'approfondimento, rifiuto della pigrizia mentale ed esortazione a tenere sempre alto il livello del dibattito: il lavoro di Sinisi, in definitiva, comunica questo. L'idea di un teatro vivo, non ripiegato su se stesso nè ristretto a una specifica cerchia. Un teatro funzionale al confronto e al reciproco arricchimento. Un teatro senza età, perchè rivolto ai più adulti ma anche a chi, dietro ai banchi di scuola, ci sta ancora.
D: Sinisi, la scenografia appare differente e particolare, rispetto a ciò che ci si aspetterebbe dalla messinscena di un grande classico: il palco è occupato da un'impalcatura molto simile alle strutture utilizzate nei cantieri edilizi. Esiste un significato specifico legato alla scelta di questo allestimento, o si tratta di una soluzione esclusivamente pratica e funzionale alla costruzione dello spettacolo?
R: Diciamo che non potendo procedere su un piano naturalistico e non avendo, quindi, la possibilità di rappresentare tutti gli spazi entro ai quali i personaggi si muovono nel corso della storia ho preferito lavorare per segni. Attraverso questi è permesso al pubblico di partecipare in modo attivo a ciò che avviene in scena, rielaborandolo attraverso il proprio background umano e sensoriale. A Koreja non è stato possibile perchè non c'è, ma in realtà generalmente il nostro spettacolo inizia a sipario chiuso. E noi ci giochiamo in quanto, nel momento in cui si apre, il primo segno evidente è l'impalcatura. La scelta di occupare la scena con un'impalcatura è collegata all'idea di un muro che occluda la vista, il nostro immaginario e che allo stesso tempo rappresenti l'impedimento dato ai due innamorati, in sintonìa con la scritta "non s'ha da fare" che spicca sui pannelli e si riferisce anche al gioco del teatro o alla cattiveria di Don Rodrigo, che è in parte presente in tutti noi. Un muro grezzo, approssimato, non portato a termine come tanti progetti edilizi, peculiarità nostra, meridionale, che vìola e deturpa il territorio. Questa struttura rimane protagonista della scena per tutta la durata del primo atto, fino al momento in cui la monaca di Monza viene murata. Qui l'impalcatura è portata verso il proscenio; normalmente il sipario si chiude su "Running up that hill" dei Placebo, per poi riaprirsi dopo l'intervallo quando il muro non c'è più. Ci ritroviamo nel momento del monologo di Renzo durante l'assalto ai forni, in una prospettiva differente da quella che aveva caratterizzato il primo atto: non ci si concentra esclusivamente sulla storia specifica, ma su vicende globali che coinvolgono la collettività.
D: Suddiviso in primo e secondo tempo, lo spettacolo presenta due blocchi dalle caratteristiche differenti: il primo, focalizzato sulla narrazione dei punti principali della storia fino all'Addio ai monti, recitato da alcuni profughi in un video proiettato su un pannello. Il secondo, prosecuzione della narrazione, incentrato sulla riflessione e sul dibattito riguardo le tematiche più generali trattate dal romanzo attraverso espedienti e interventi esterni. Qual è l'obiettivo finale di questa scelta registica e drammaturgica?
R: L'obiettivo è sempre stato quello di restituire dignità e grandezza alla nostra letteratura e a questo testo, approfondendolo in modo da dimostrare a chi viene a teatro che "I promessi sposi" è un'opera importante non per caso. Come dico spesso ai ragazzi, per me, è un romanzo fichissimo, pieno di colori e di grandi tematiche. Allo stesso tempo sa essere anche molto divertente, soprattutto attraverso la caratterizzazione dei suoi personaggi, diventati ormai dei modelli di riferimento e le cui sfumature caratteriali ritroviamo spesso anche nel mondo contemporaneo.
Inoltre, il mio, vuole essere anche un invito a me stesso e a tutti coloro che fanno teatro, a non cadere mai nell'errore di abbassare il livello della discussione: la curiosità è fondamentale. Confrontarsi, anche con i testi più rischiosi, può essere un lavoro davvero stimolante: scavando si riesce a trovare sempre qualcosa di nuovo. "I promessi sposi", in questo senso, costituisce sicuramente un'ottima occasione, oltre che un grande contenitore e un'esperienza di lettura consistente.
Visto in quest'ottica, il teatro in sè, non è il fine, quanto il mezzo per mettere in atto quest'operazione. Un'operazione che coinvolge tutti, ragazzi e adulti.
D: Per quanto riguarda il testo dello spettacolo, a quale motivazione collega la scelta di lasciare integro il testo originale del romanzo, eccetto per alcune parti del suo lavoro?
R: Utilizziamo le parole del testo originale in quanto parole del Manzoni: un lombardo che cercò di dare unità linguistica a un'Italia che non esisteva ancora attraverso il toscano che, già all'epoca, individuò come lingua potenzialmente unitaria. Il "timore" degli studenti nei confronti di questo romanzo è collegato anche alla sua architettura verbale; senza questa, la resa dello spettacolo non sarebbe stata la stessa. Non si sarebbe percepito lo stridore del gioco attoriale e dell'allestimento contemporaneo, con quelle parole auliche, alte, ottocentesche. non avremmo percepito la nostra funzionalità rispetto al romanzo che andavamo a trattare.
postato da Koreja il sab 23 novembre 2024 alle 10:34 - Commenti(0)
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