ven 14 dicembre 2018 - ore 11:57

UN VUOTO RUMOROSO



di Ida Barbalinardo

foto di Alice Stella
Ho sempre fatto un po' a pugni con il periodo storico durante il quale sono nata. I momenti in cui riesco a farci pace, a vederne i vantaggi e i lati positivi, vengono spesso soppiantati da un senso di inadeguatezza, quasi di insofferenza. Basta poco: una canzone, un vecchio film, mio padre e i racconti appassionati sulla sua giovinezza, i ritorni a Pisticci, paese d'origine della mia famiglia e luogo in cui ancora ritrovo qualche stralcio di quella genuinità quasi del tutto perduta. Che non mi si fraintenda: questo non vuole essere il solito discorso retorico da "si stava meglio quando si stava peggio". E' solo la percezione di un vuoto, di un inaridimento, di un eccesso di forma rispetto alla sostanza.
"Chiedi chi era Francesco" è stato uno tra i tanti "pretesti" per risvegliare dal torpore questo mio senso di estraneità. Il regista Andrea Adriatico, attraverso le parole di Grazia Verasani, porta in scena qualcosa di differente dalla semplice cronaca degli avvenimenti legati all'uccisione dello studente e militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Le comuni aspettative nei confronti degli spettacoli a tema storico sono, infatti, totalmente sovvertite: ne viene fuori un lavoro intelligente, il cui obiettivo principale è rivolgersi a chi il '77 non l'ha vissuto. Alla gioventù. Alla mia generazione tanto bistrattata. Il tono utilizzato non è assolutamente paternalistico o moralista, come forse ci si aspetterebbe. Al contrario, ci si serve dei racconti e del ricordo di chi c'era per riferirsi a chi non sa e per riportare alla luce i sogni e gli ideali traditi di una fase della nostra storia tanto conflittuale, quanto piena.
Punto di partenza dello spettacolo è la narrazione del profilo biografico di Francesco Lorusso affidata agli attori, in piedi all'interno di un riquadro ricavato sulla scena e presentati di spalle. Quest'ultima caratteristica si protrarrà per la quasi totalità della messinscena. Non ci è dato conoscere i loro volti e analizzarne le espressioni, se non nella seconda parte dello spettacolo, attraverso delle proiezioni. Ne risulta un prodotto che, per le sue componenti, pare più cinematografico che teatrale. A essere protagonista è quindi la parola che, filtrata dal personale vissuto di ogni spettatore, diventa immagine, ricordo o sogno, rievocazione di un ideale, inevitabile confronto con la contemporaneità; suscita in chi ascolta, tramite il racconto del passato, una riflessione sul presente. E così che sorge spontaneo chiedersi: cosa è cambiato? Cosa abbiamo perso? Cosa, invece, ci è rimasto?
Terminato il resoconto biografico echeggiano, nel silenzio, degli spari. Una nube di fumo investe la platea. Chi è in scena fugge terrorizzato fuori dalla sala. Soltanto uno di questi non scappa, non urla, non chiede aiuto, non si muove: è Francesco Lorusso che, raggiunto da uno dei proiettili, giace scomposto e senza vita sul pavimento. Passa qualche secondo e ci si ritrova nel 2018: ai piedi del pubblico resta ancora, immobile, il corpo esanime del giovane. Rimarrà lì per tutta la durata dello spettacolo: simbolo del passato, monito per i presenti e per una società come la nostra, che sembra non avere memoria. La scenografia è invece abitata da una stazione radiofonica, simbolo del presente. E' l'11 novembre, quarantunesimo anniversario di quanto accadde a Bologna, in Via Mascarella. La speaker, nella comunicazione con i suoi ascoltatori, dà vita a una costante alternanza di due registri temporali: riporta in diretta continui aggiornamenti sulla cronaca; ascolta i racconti di chi era presente; fornisce informazioni e parla della sua esperienza di quegli anni a chi non era neanche nato; manda in diffusione pezzi musicali significativi di quell'epoca, ma anche della nostra.
In quest'altalena tra storia e contemporaneità, significativi sono gli interventi di tre ascoltatori. Interrotti nelle loro azioni quotidiane e proiettati direttamente sulla scenografia: essi offrono suggestioni e punti di vista differenti. Alla guida della sua macchina troviamo una donna, ormai mamma da tempo, che dà sfogo alla propria nostalgia riportando alla luce gli ideali di condivisione di quella generazione, il tradimento di questi e la conseguente disillusione che la porta addirittura a non usufruire più del suo diritto di voto. C'è poi un signore ancora in età giovanile che, durante la sua corsetta serale, prorompe in una manifestazione di rabbia verso il presente, verso chi ha violato i suoi sogni, verso chi, quell'11 novembre, ha sporcato con il sangue il progetto di una società più giusta. Una sfiducia furente che assume, come punto di partenza, l'immagine della miriade di vetrine rotte all'indomani degli scontri.
L'ultimo a intervenire è un ragazzo trovatosi ad ascoltare la stazione radiofonica mentre, in preda alle pene d'amore, freme sotto casa della sua fidanzata perchè gli venga data un'altra possibilità. E' confuso e incuriosito: non lo sa mica chi è questo Francesco, ma è rimasto rapito da quelle che sono state le testimonianze degli ascoltatori precedenti e vuole sapere. Allo stesso tempo, però, è come se non riuscisse a comprenderne appieno le ragioni. "Non sarebbe stato meglio se fosse rimasto a casa a fare l'amore con la sua donna?": risponde riferendosi alla vittima di Via Mascarella. Punto finale e focus dello spettacolo, questo giovane è fotografia di una generazione: la mia, 23 anni, classe 1995. Ne riassume le colpe, ma anche le inquietudini e le mancanze. Una generazione in parte pigra, poco protagonista del proprio presente, che tende a non sfruttare pienamente gli strumenti a sua disposizione. Una generazione che non conosce questo spirito di assoluta condivisione e che vorrebbe poterlo rivivere. Una generazione sicuramente non priva di ideali, ma vittima della precarietà del suo tempo e immersa nella solitudine. Una solitudine che a volte tende a estremizzarsi e a evolvere in egoismo, individualismo, paura del diverso, istinto separatista.
In che misura, noi giovani, siamo responsabili del vuoto che ci circonda? E in che misura ne siamo semplicemente vittime? A quando risale di preciso il momento di rottura di quegli ideali? Per quale motivo ci ritroviamo nel 2018 ad affrontare gran parte delle stesse problematiche sociali del passato? Perchè ci troviamo ad essere rappresentati da gente che fa della discriminazione il proprio slogan? Perché non riusciamo a imparare dalla storia? Dobbiamo davvero rassegnarci all'idea che la lotta per un mondo più giusto, sia inutile? Che forma ha, oggi, la lotta? E quale senso? "Chiedi chi era Francesco" è dunque questo: non una critica alla gioventù contemporanea, ma un tentativo di portare in superficie il clima in cui questa vive e si sviluppa. La percezione di un vuoto che, se pensato in relazione al passato, fa ancora più rumore.


postato da Koreja il mer 23 ottobre 2024 alle 05:19 - Commenti(0)


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