lun 05 novembre 2018 - ore 12:12

Il Cantico di Roberto Latini. Mancanza e dubbio.



di Ida Barbalinardo

Sabato 27 ottobre, ore 20.45, Roberto Latini porta in scena il suo "Cantico dei cantici" ai Cantieri Teatrali Koreja. Il foyer gremito di gente in attesa, come probabilmente mai lo avevo visto, è trai primi ricordi di quella serata, che ad oggi riaffiorano nella mia mente. Come parte del progetto, o per meglio dire, del programma "Noosfera" firmato Fortebraccio Teatro, il "Cantico dei cantici" porta alla luce uno degli ultimi testi accolti nel canone biblico. Un testo antico, inusuale, per certi versi affine, per altri parzialmente in contrasto con la natura del testo sacro. Composto da 8 capitoli contenenti poemi in forma dialogica, il "Cantico dei cantici" narra, in versi, l'amore tra un uomo e una donna (probabilmente Salomone e Sulammita) e lo fa associando dolci profumi, lodi alla bellezza dell'amata o dell'amato, immagini idilliache a suggestioni sensuali, allusioni erotiche ("L'amato mio ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui") o ancora a sentimenti di angoscia e smarrimento ("Ho aperto allora all'amato mio [...], era scomparso. Io venni meno per la sua scomparsa [...]. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città; mi hanno percossa, mi hanno ferita."). L'idealizzazione e la divinizzazione del rapporto amoroso lasciano spesso spazio, quindi, a componenti che potrebbero indurre a una lettura dei contenuti in chiave laica. A prescindere da considerazioni varie, restano indubbie la potenza e la nobiltà di questo testo che, in coerenza con il suo titolo, è da percepire come il Canto sopra ogni canto.

Appena dopo essermi accomodata in platea, mentre il resto del pubblico si fa strada tra le poltrone, scorgo nella penombra del palcoscenico, l’attore disteso su una panchina, quasi dormiente. E' lì, già immerso in qualcosa che non mi è possibile carpire, nonostante gli sforzi, e di cui non faccio parte. , Almeno non prima che si spengano le luci e che il vociare in sala lasci spazio al silenzio. Alle sue spalle vi è quella che sembrerebbe una postazione radiofonica, due microfoni, una bottiglietta d'acqua e la testa di un manichino con una parrucca verde. Fuori dal quel riquadro, una pianta sulla destra e un microfono dall’aspetto vintage, sulla sinistra. Semplicemente osservando gli elementi che compongono la scena, ho l'immediata percezione della necessità, alla base della costruzione di questo spettacolo, di tradire l'opera originale. Sensazione che verrà confermata anche successivamente. Buio. Silenzio. L'attore si alza lentamente. Indossa una parrucca nera, un cappotto lungo e un pantalone, entrambi scuri, maglietta bianca, bretelle e stivaletti neri. Gli occhi sono cerchiati da un alone di trucco nero. Seduto sulla panchina e poi in piedi, assume movenze che sfociano in un ballo. Nell’immediato penso ad una versione teatrale del "villain" interpretato da Luca Marinelli in "Lo chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti, con la differenza che qui, in sottofondo, non ci sono i successi di Anna Oxa e Loredana Bertè, ma "Every you, every me" dei Placebo. Un tappeto sonoro, diversamente composto, dona ulteriore incisività alle parole. Musica originale e intermezzi pop (come "A far l'amore comincia tu" nella versione di Bob Sinclar) saranno parte integrante dello spettacolo e scandiranno i versi biblici. E più volte saranno costellati di esplicite allusioni sessuali, come la simulazione di un amplesso. Molti gli omaggi, da Carmelo Bene a Jean Cocteau fino a "C'era una volta in America" di Sergio Leone e alla colonna sonora di Morricone. Questo momento, infatti, sottolinea, come altri, l’andamento drammaturgico non lineare ma omogeneo, interrotto da pause e sospensioni di ritmo che trascinano lo spettatore fuori da un “quadro” per ricondurvelo immediatamente dopo. Un continuo entrare e uscire dalla soggettiva del personaggio in cui la musica è al servizio dell’attore e dello spettatore. L’uso di cuffie e la scritta ON AIR che scompare, ci suggerisce che ormai abbiamo assunto il punto di vista interiore ed emotivo del personaggio; la radio è lo strumento ideale per far sì che quelle parole giungano a quante più persone possibili e siano, appunto, “nell’aria”.

L'attore alterna registri vocali duri, aspri a registri dolci e delicati. Interrompe il testo, lo riprende e lo ripete più volte senza dare importanza estrema al suo ordine, fino al raggiungimento della sua personale "temperatura corporea" necessaria a tirar fuori la bellezza e la carica dirompente proprie del testo. Fondamentali non sono tanto le parole, quanto le suggestioni che esse trasmettono e la loro potenza. Un crescendo di emozioni che accompagnano lo spettatore nel mondo del personaggio, fino a farlo entrare nella sua “casa”, fargli prendere confidenza con i suoi modi, i suoi tic, le sue passioni e i suoi pensieri più profondi. Nel finale, Latini sembra essere arrivato a un livello di coinvolgimento tale da non permettergli di sopportare oltre inutili sovrastrutture: via la parrucca, via il cappotto, giù le bretelle. Seduto sulla panchina prova a simulare, con le mani, la presenza delle cuffie ma poco dopo esplode in un fiume di passione e di impeto, che ci investe e ci tiene attaccati alle poltrone. Con le braccia e con il cuore. Improvvisamente però, quasi a dover smorzare con l'ironia quel canto furioso, interviene nuovamente "C'era una volta in America". "Che peccato!". Buio.

Silenzio, assenza, dubbio, disaccordo, contrasto: "non c'è niente di più noioso, a teatro, di due persone che vanno d'accordo" sosteneva Luca Ronconi. Ecco, credo che lo spettacolo sia basato su un gioco di contrasti: la musica pop affiancata al testo biblico; i registri vocali aspri e duri utilizzati per mettere in evidenza la potenza dei sentimenti.

Parte integrante dello spettacolo è, però, soprattutto il silenzio, fin dal momento in cui si presenta l'attore dormiente sul palco, prima che il pubblico si sieda. C'è silenzio nelle telefonate che il personaggio riceve alla postazione radiofonica e delle quali non conosciamo il contenuto; c'è silenzio perfino nella forma in cui è costruito e strutturato lo spettacolo. Ma il silenzio si concretizza più precisamente in mancanza e dubbio: chi è sul palco, infatti, è "mancante, non performante". Non argomenta, non chiarisce, non riempie vuoti; anzi, se vogliamo, li crea. Esattamente come il teatro. Il dubbio, invece, è per lo spettatore. Se credete, quindi, di aver colto il significato oggettivo e indiscutibile di questo spettacolo, vi state sbagliando. Se non avete ancora le idee completamente chiare e state scavando dentro di voi cercando le possibili ragioni del tutto, probabilmente avete imboccato la strada giusta.


postato da Koreja il sab 23 novembre 2024 alle 10:31 - Commenti(0)


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