KATËR I RADËS: il viaggio disperato verso l’Altro
di Beatrice Galluzzo
Acqua. Acqua a perdita d’occhio. Onde spumeggianti e fredde, viscose e nere come una coperta di sale. Il mare, come un Dio Indifferente sospinge tra i suoi flutti una piccola imbarcazione, Katër i Radës. Era il Venerdì Santo dell’anno 1997 e l’Albania stava precipitando in uno dei baratri più bui della sua storia. I figli e le figlie di quell’Albania in disordine portano quello che hanno, perlopiù stracci e prole, su una piccola barca, diretta nel Canale d’Otranto. Legno, chiodi arruginiti e salsedine. Dopodichè, l’ultima speranza fu speronata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana, e colò a picco come un sasso lasciato cadere distrattamente nelle acque.
Dalle profondità di un abisso, che è sia d’acqua, che d’umanità, la Compagnia Teatrale Koreja, in coproduzione con la Biennale di Venezia, riprende la storia infausta di questa motovedetta albanese. L’opera, diretta da Salvatore Tramacere, prende le mosse dal reportage di Alessandro Leogrande, “Il Naufragio”, donando volti e voci, plasticità e corpi ai 120 uomini, donne e bambini che salparono da Valona in rotta per l’Italia.
Le musiche di Admir Shkurtaj accompagnano la “soave” disperazione delle donne in partenza. Intonano liriche e canti, lamenti e gorgheggi. Un piano mobile lentamente si avvicina al centro della scena: è Katër i Radës. Lanciano un ultimo sguardo al di là, verso quelle coste in attesa di essere perdute, verso quella patria amata e infame. Il coro polifonico di musica tradizionale albanese accenna un canto popolare, che è un accorato e simbolico addio. I cinque coristi in abiti tipici, sono persone, certamente, ma solo all’inizio. Man mano che le ugole intonano e gli sguardi di chi parte e chi resta si incontrano, cessano di essere tali, e come per incanto divengono Cultura, Tradizione, Radici. Nucleo pulsante della Patria, nel suo senso più vero e passionale. Sono tutto ciò che rimane, indissolubile e tenace, ramificato intorno al cuore di chi, per necessità, fugge. A sovrastare il tutto, abbarbicati su una struttura in metallo, torre di controllo, tre paia di occhi sovrastano la scena. Trasmettono l’uno all’altro, con voci a metà tra la telecomunicazione radar e il bisbiglìo luciferino, l’informazione circa la presenza di un’imbarcazione in avvicinamento alle coste.
Una serie di riflessioni amare sono figlie di quest’opera che si prende l’onere di raccontare un passato “carico degli echi assordanti del presente”. Il merito imprescindibile è quello di aver mostrato, con “cruda poesia”, una di quelle tante piccole storie che sono sempre le “Storie degli Altri” spesso celate o taciute, perse per sempre nell’impersonalità devastante del numero, della somma e dell’asettico bilancio; persone che diventano numeri. Ma quando avviene il contrario, allora è la magia dell’Uomo che si riappropria di se stesso attraverso l’Altro. Questo è il sottofondo da cui prende le mosse Katër i Radës, declinabile, poi, in senso filosofico e politico, a seconda della disposizione d’animo d’ognuno. Ma sia che si abbia l’inclinazione verso l’ideale, sia che si viri sul pragmatismo, le acque di questo Mar Mediterraneo raccontano con gesti e musica. E le abbiamo sentite anche noi al di qua del palco, a bagnarci, gelide, le caviglie.
postato da Koreja il gio 21 novembre 2024 alle 17:23 - Commenti(0)
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