Hidden Body, un viaggio rarefatto e dilatato che tocca l’anima dello spettatore
di Beatrice Galluzzo
Anan Atoyama, coreografa giapponese, mette in scena uno spettacolo che rende omaggio a quella danza oscura nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale in un Giappone sconvolto dagli orrori post-bellici e che risponde al nome di Butoh. Ma, soprattutto, si presenta come celebrazione devota, ma non asservita, a uno dei padri fondatori di quest’arte, Kazuo Ohno. Atoyama riprende, dunque, alcuni degli elementi tipici del genere, a partire dalla costruzione di una rarefatta atmosfera di destabilizzante e apparente illogicità.
Impossibile, dunque, non partire da un’eloquente citazione del mentore e ideatore di quella dimensione artistica da cui “Hidden Body” fiorisce. “La cosa migliore che qualcuno possa dirmi è che guardando la mia performance, ha iniziato a piangere. Non è importante capire cosa io stia facendo; forse è meglio quando non lo si capisce. Ma solo rispondere alla musica”. Lasciamo sedimentare a fondo queste parole. Lasciamo che i semi germoglino.
“Hidden Body” è, innanzitutto, semplicemente bellissimo. Candido, pulito, forte d’una rigorosa ricerca estetica che appaga occhi e spirito in egual modo. Prendendoci un attimo, una pausa dalla sua valenza semiotica, iniziamo col dire che, a livello puramente visivo, la performance costruisce un luogo incantato immobile e sospeso, dove la stessa Atoyama e Francesca Cinalli si muovono circondate tra mille bicchieri, vuoti e pieni, di differenti grandezze e fatture. L’armonia tra gli elementi e la relazione che intercorre tra i corpi delle donne e gli oggetti, simbolici ed evocativi, non viene mai meno e non diviene ricerca vana di un estetismo sterile. Penso ad una macchina fotografica immaginaria, che scatta una foto per ogni secondo di “Hidden Body”: ecco, in ogni immagine sarebbe racchiuso un momento di rara eleganza.
Difficile è stabilire il senso ultimo di un’opera che rimane, perlopiù, inafferrabile. Ma forse, è proprio questo il punto. “Hidden Body” lascia allo spettatore il privilegio e l’onere di sobbarcarsi personalmente il compito della ricerca di un senso, non esplicito e non dichiarato, ma che veste e accarezza come un guanto di seta l’intimità dello spettatore, unico artefice definitivo di questa storia misteriosa. Certo, la pièce è li, sotto gli occhi di tutti. Ed è fatta di oggetti e materia e corpi. Ma in qualche modo si deforma e si declina.
Ancora, penso ad un viaggio fra l’ingombrante e terribile presenza degli Assenti. Tutti coloro i quali se ne sono andati e non hanno mai più voluto, o potuto, tornare. E noi li teniamo, ancora a metà strada tra il ricordo e la realtà, come se fossero ancora intorno a noi, perpetui e immobili. Il dolore devastante del non saper lasciare andare ci mastica lentamente, in un moto angoscioso che ci costringe a rivivere momenti e sensazioni dei tempi che furono. Attingiamo dal ricordo, sempieterno e funereo, che ci sovrasta e si palesa in ogni istante implacabile. Abbiamo bisogno di percepirlo, necessitiamo di essere avvolti dalla polvere dei corpi che non sono più. Prima o poi, però, esplode la ribellione finale a questa reminiscenza forzata. E allora, possiamo darci pace.
postato da Koreja il sab 23 novembre 2024 alle 09:21 - Commenti(0)
scrivi un commento
|